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112 Cuore infermo

egli aveva paura di questo punto ignorato, non osava profondarci lo sguardo, cercando di essere più forte, più coraggioso per affrontare l’aspetto. L’amarezza della sua vita si era tutta raccolta in quel punto. E là, perfida, nera, crudele, attendeva per prendersi un’altra volta il suo cervello ed il suo cuore. Se egli non voleva pensarci, bisognava che vivesse fuori di sè.

Al mattino non si levava tanto presto; leggeva la sua posta, scriveva lettere, parlava col suo intendente, occupandosi con un interesse minuto degli affari, dei contratti, degli affitti delle sue terre, ecc., ecc. A volta egli pensava vagamente a qualche grandiosa industria da impiantare nel suo feudo di Sangiorgio, un’idea colossale ed umanitaria dove potesse mettere e sciupare la sua vita; ma forse era un sogno. Dopo la colazione usciva, andava al Caffè di Napoli a passare un’oretta, chiacchierando, in quelle conversazioni futili che sono così efficaci a distrarre col loro vano mormorio: dopo vi era sempre qualche visita da fare a signore amiche o parenti; indi a tirare quattro colpi di pistola al bersaglio, spezzando i colli di parecchie bottiglie e facendo saltare in aria la testa di varie bambole in porcellana; poi alla passeggiata alla Riviera, a cavallo, a piedi, o in carrozza, sempre con qualche amico; il pranzo fatto in fretta; subito dopo, vestirsi per andare al San Carlo, al Casino dell’Unione, al Circolo del Whist per aspettare che si facessero le due dopo mezzanotte; a casa, leggere ostinatamente sino a che la stanchezza gli facesse chiudere gli occhi.

Così marito e moglie non restavano molto tempo della giornata insieme. Si vedevano alla mattina ed all’imbrunire. Per quanto Marcello si assentasse di casa, veniva il momento in cui si doveva ritrovare con sua moglie; e, qualche tempo prima che ella comparisse,