anche più di me che venisse. Come ci fece piacere! Appena entrato, si levò il cappello a cencio ch’era tutto bagnato di neve e se lo ficcò in un taschino; poi venne innanzi, con quella sua andatura trascurata d’operaio stanco, rivolgendo qua e là il visetto tondo come una mela, col suo naso a pallottola; e quando fu nella sala da desinare, data un’occhiata in giro ai mobili, e fissati gli occhi sur un quadretto che rappresenta Rigoletto, un buffone gobbo, fece il «muso di lepre». È impossibile trattenersi dal ridere a vedergli fare il muso di lepre. Ci mettemmo a giocare coi legnetti: egli ha un’abilità straordinaria a far torri e ponti, che par che stian su per miracolo, e ci lavora tutto serio, con la pazienza di un uomo. Fra una torre e l’altra, mi disse della sua famiglia: stanno in una soffitta, suo padre va alle scuole serali a imparar a leggere, sua madre è biellese. E gli debbono voler bene, si capisce, perché è vestito così da povero figliuolo, ma ben riparato dal freddo, coi panni ben rammendati, con la cravatta annodata bene dalla mano di sua madre. Suo padre, mi disse, è un pezzo d’uomo, un gigante, che stenta a passar per le porte; ma buono, e chiama sempre il figliuolo «muso di lepre»; il figliuolo, invece, è piccolino. Alle quattro si fece merenda insieme con pane e zebibbo, seduti sul sofà, e quando ci alzammo, non so perché, mio padre non volle che ripulissi la spalliera che il muratorino aveva macchiata di bianco con la sua giacchetta: mi trattenne la mano e ripulì poi lui, di nascosto. Giocando, il muratorino perdette un bottone della cacciatora, e mia madre glie l’attaccò, ed egli si fece rosso e stette a vederla cucire tutto meravigliato e confuso, trattenendo il respiro. Poi gli diedi a vedere degli album