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dagli apennini alle ande 279

reva una folla furente che se li disputasse a palmo a palmo; altri raccolti in grandi gruppi, verticali e serrati come fasci di lancie titaniche, di cui la punta toccasse le nubi; una grandezza superba, un disordine prodigioso di forme colossali, lo spettacolo più maestosamente terribile che gli avesse mai offerto la natura vegetale. A momenti lo prendeva un grande stupore. Ma subito l’anima sua si rilanciava verso sua madre. Ed era sfinito, coi piedi che facevan sangue, solo in mezzo a quella formidabile foresta, dove non vedeva che a lunghi intervalli delle piccole abitazioni umane, che ai piedi di quegli alberi parevan nidi di formiche, e qualche bufalo addormentato lungo la via; era sfinito, ma non sentiva la stanchezza; era solo, e non aveva paura. La grandezza della foresta ingrandiva l’anima sua; la vicinanza di sua madre gli dava la forza e la baldanza d’un uomo; la ricordanza dell’oceano, degli sgomenti, dei dolori sofferti e vinti, delle fatiche durate, della ferrea costanza spiegata, gli facean alzare la fronte; tutto il suo forte e nobile sangue genovese gli rifluiva al cuore in un’onda ardente d’alterezza e d’audacia. E una cosa nuova seguiva in lui: che mentre fino allora aveva portata nella mente un’immagine della madre oscurata e sbiadita un poco da quei due anni di lontananza, in quei momenti quell’immagine gli si chiariva; egli rivedeva il suo viso intero e netto come da lungo tempo non l’aveva visto più; lo