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dagli apennini alle ande 261

una voce; gli pareva di trovarsi solo in un treno, perduto, abbandonato in mezzo a un deserto. Gli sembrava che ogni stazione dovesse essere l’ultima, e che s’entrasse dopo quella nelle terre misteriose e spaurevoli dei selvaggi. Una brezza gelata gli mordeva il viso. Imbarcandolo a Genova sul finir d’aprile, i suoi non avevan pensato che in America egli avrebbe trovato l’inverno, e l’avevan vestito da estate. Dopo alcune ore, incominciò a soffrire il freddo, e col freddo, la stanchezza dei giorni passati, pieni di commozioni violente, e delle notti insonni e travagliate. Si addormentò, dormì lungo tempo, si svegliò intirizzito; si sentiva male. E allora gli prese un vago terrore di cader malato e di morir per viaggio, e d’esser buttato là in mezzo a quella pianura desolata, dove il suo cadavere sarebbe stato dilaniato dai cani e dagli uccelli di rapina, come certi corpi di cavalli e di vacche che vedeva tratto tratto accanto alla strada, e da cui torceva lo sguardo con ribrezzo. In quel malessere inquieto, in mezzo a quel silenzio tetro della natura, la sua immaginazione s’eccitava e volgeva al nero. Era poi ben sicuro di trovarla, a Cordova, sua madre? E se non ci fosse stata? Se quel signore di via delle Arti avesse sbagliato? E se fosse morta? In questi pensieri si riaddormentò, sognò d’essere a Cordova di notte, e di sentirsi gridare da tutte le porte e da tutte le finestre: - Non c’è! Non c’è! Non c’è!; - si ri-