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214 aprile

bito a far colazione. L’albergo era silenzioso come un convento. Il maestro era molto allegro, e la commozione gli accresceva il tremito; non poteva quasi mangiare. Ma mio padre gli tagliava la carne, gli rompeva il pane, gli metteva il sale nel tondo. Per bere bisognava che tenesse il bicchiere con due mani, e ancora gli batteva nei denti. Ma discorreva fitto, con calore, dei libri di lettura di quando era giovane, degli orari d’allora, degli elogi che gli avevan fatto i superiori, dei regolamenti di quest’ultimi anni, sempre con quel viso sereno, un poco più rosso di prima, e con una voce gaia, e il riso quasi d’un giovane. E mio padre lo guardava, lo guardava, con la stessa espressione con cui lo sorprendo qualche volta a guardar me, in casa, quando pensa e sorride da sè, col viso inclinato da una parte. Il maestro si lasciò andar del vino sul petto; mio padre s’alzò e lo ripulì col tovagliolo. — Ma no, signore, non permetto! — egli disse, e rideva. Diceva delle parole in latino. E in fine alzò il bicchiere, che gli ballava in mano, e disse serio serio: — Alla sua salute, dunque, caro signor ingegnere, ai suoi figliuoli, alla memoria della sua buona madre! — Alla vostra, mio buon maestro! — rispose mio padre, stringendogli la mano. E in fondo alla stanza c’era l’albergatore ed altri, che guardavano, e sorridevano in una maniera, come se fossero contenti di quella festa che si faceva al maestro del loro paese.

Alle due passate uscimmo e il maestro ci volle accompagnare alla stazione. Mio padre gli diede di nuovo il braccio ed egli mi riprese per la mano: io gli portai il bastone. La gente si soffermava a guardare, perchè tutti lo conoscevano; alcuni lo salutavano. A un certo punto della strada sentimmo da