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208 aprile


— Ebbene, — disse mio padre, pigliandogli una mano, — permetta a un suo antico scolaro di stringerle la mano e di domandarle come sta. Io son venuto da Torino per vederla.

Il vecchio lo guardò stupito. Poi disse: — Mi fa troppo onore.... non so.... Quando, mio scolaro? mi scusi. Il suo nome, per piacere.

Mio padre disse il suo nome, Alberto Bottini, e l’anno che era stato a scuola da lui, e dove; e soggiunse: — Lei non si ricorderà di me, è naturale. Ma io riconosco lei così bene!

Il maestro chinò il capo e guardò in terra, pensando, e mormorò due o tre volte il nome di mio padre; il quale, intanto, lo guardava con gli occhi fissi e sorridenti.

A un tratto il vecchio alzò il viso, con gli occhi spalancati, e disse lentamente: — Alberto Bottini? il figliuolo dell’ingegnere Bottini? quello che stava in piazza della Consolata?

— Quello, — rispose mio padre, tendendo le mani.

— Allora.... — disse il vecchio, — mi permetta, caro signore, mi permetta, — e fattosi innanzi, abbracciò mio padre: la sua testa bianca gli arrivava appena alla spalla. Mio padre appoggiò la guancia sulla sua fronte.

— Abbia la bontà di venir con me, — disse il maestro.

E senza parlare, si voltò e riprese il cammino verso casa sua. In pochi minuti arrivammo a un’aia, davanti a una piccola casa con due usci, intorno a uno dei quali c’era un po’ di muro imbiancato.

Il maestro aperse il secondo, e ci fece entrare in una stanza. Eran quattro pareti bianche: in un canto un letto a cavalletti con una coperta a quadretti