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il conte cavour 189

di più terribili nel suo gabinetto, quando l’enorme opera sua poteva rovinare di momento in momento come un fragile edifizio a un crollo di terremoto; ore, notti di lotta e d’angoscia passò, da uscirne con la ragione stravolta o con la morte nel cuore. E fu questo gigantesco e tempestoso lavoro, che gli accorciò di vent’anni la vita. Eppure, divorato dalla febbre che lo doveva gettar nella fossa, egli lottava ancora disperatamente con la malattia, per far qualche cosa per il suo paese. - È strano, diceva con dolore dal suo letto di morte, - non so più leggere, non posso più leggere. - Mentre gli cavavan sangue e la febbre aumentava, pensava alla sua patria, diceva imperiosamente: - Guaritemi, la mia mente s’oscura, ho bisogno di tutte le mie facoltà per trattare dei gravi affari. - Quando era già ridotto agli estremi, e tutta la città s’agitava, e il Re stava al suo capezzale, egli diceva con affanno: - Ho molte cose da dirvi, Sire, molte cose da farvi vedere; ma son malato, non posso, non posso; - e si desolava. E sempre il suo pensiero febbrile rivolava allo Stato, alle nuove provincie italiane che s’erano unite a noi, alle tante cose che rimanevan da farsi. Quando lo prese il delirio. - Educate l’infanzia, - esclamava fra gli aneliti, - educate l’infanzia e la gioventù... governate con la libertà. - Il delirio cresceva, la morte gli era sopra, ed egli invocava con parole ardenti il generale Garibaldi, col quale aveva avuto dei dissensi, e Venezia e Roma che non erano ancor libere; aveva delle vaste visioni dell’avvenire d’Italia e d’Europa; sognava un’invasione straniera, domandava dove fossero i corpi dell’esercito e i generali, trepidava ancora per noi,