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i ragazzi ciechi 145

Eppure... poveri ragazzi, quando s’entra per la prima volta nell’Istituto dei ciechi, durante la ricreazione, a sentirli suonar violini e flauti da tutte le parti, e parlar forte e ridere, salendo e scendendo le scale a passi lesti, e girando liberamente per i corridoi e pei dormitori, non si direbbe mai che son quegli sventurati che sono. Bisogna osservarli bene. C’è dei giovani di sedici o diciott’anni, robusti e allegri, che portano la cecità con una certa disinvoltura, con una certa baldanza quasi; ma si capisce dall’espressione risentita e fiera dei visi, che debbono aver sofferto tremendamente prima di rassegnarsi a quella sventura. Ce n’è altri, dei visi pallidi e dolci, in cui si vede una grande rassegnazione; ma triste, e si capisce che qualche volta, in segreto, debbono piangere ancora. Ah! figliuoli miei. Pensate che alcuni di essi hanno perduto la vista in pochi giorni, che altri l’han perduta dopo anni di martirio, e molte operazioni chirurgiche terribili, e che molti son nati così, nati in una notte che non ebbe mai alba per loro, entrati nel mondo come in una tomba immensa, e che non sanno come sia fatto il volto umano! Immaginate quanto debbono aver sofferto e quanto debbono soffrire quando pensano così, confusamente, alla differenza tremenda che passa fra loro e quelli che ci vedono, e domandano a sè medesimi: - Perché questa differenza se non abbiamo alcuna colpa? - Io che son stato vari anni fra loro, quando mi ricordo quella classe, tutti quegli occhi suggellati per sempre, tutte quelle pupille senza sguardo e senza vita, e poi guardo voi altri... mi pare impossibile che non siate tutti felici. Pensate: ci sono circa ventisei mila ciechi in Italia! Ventisei mila persone che non vedono luce, capite;