parola. Egli credette che non volessi accettare, e mi guardò, come per dire: — Sei anni di patimenti non sono dunque bastati a purgarmi le mani!; — ma con espressione così viva di dolore mi guardò, che tesi subito la mano e presi l’oggetto. Eccolo qui.„ — Guardammo attentamente il calamaio: pareva stato lavorato con la punta d’un chiodo, con lunghissima pazienza; c’era su scolpita una penna a traverso a un quaderno, e scritto intorno: „Al mio maestro. — Ricordo del numero 78 — Sei anni!“ — E sotto, in piccoli caratteri: — “Studio e speranza....„ Il maestro non disse altro; ce n’andammo. Ma per tutto il tragitto da Moncalieri a Torino, io non potei più levarmi dal capo quel prigioniero affacciato al finestrino, quell’addio al maestro, quel povero calamaio lavorato in carcere, che diceva tante cose, e lo sognai la notte, e ci pensavo ancora questa mattina... quanto lontano dall’immaginare la sorpresa che m’aspettava alla scuola! Entrato appena nel mio nuovo banco, accanto a Derossi, e scritto il problema d’aritmetica dell’esame mensile, raccontai al mio compagno tutta la storia del prigioniero e del calamaio e come il calamaio era fatto, con la penna a traverso al quaderno, e quell’iscrizione intorno: — Sei anni! — Derossi scattò a quelle parole, e cominciò a guardare ora me ora Crossi, il figliuolo dell’erbivendola, che era nel banco davanti, con la schiena rivolta a noi, tutto assorto nel suo problema. — Zitto! — disse poi, a bassa voce, pigliandomi per un braccio. — Non sai? Crossi mi disse avant’ieri d’aver visto di sfuggita un calamaio di legno tra le mani di suo padre ritornato dall’America: un calamaio conico, lavorato a mano, con un quaderno e una penna: — è quello; — sei anni! — egli diceva