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il tamburino sardo 99

un ospedale da campo. Egli v’andò. La chiesa era piena di feriti, adagiati su due file di letti e di materasse distese sul pavimento; due medici e vari inservienti andavano e venivano, affannati; e s’udivan delle grida soffocate e dei gemiti.

Appena entrato, il capitano si fermò, e girò lo sguardo all’intorno, in cerca del suo uffiziale.

In quel punto si sentì chiamare da una voce fioca, vicinissima: - Signor capitano!

Si voltò: era il tamburino

Era disteso sopra un letto a cavalletti, - coperto fino al petto da una rozza tenda da finestra, a quadretti rossi e bianchi, - con le braccia fuori; pallido e smagrito, ma sempre coi suoi occhi scintillanti, come due gemme nere.

- Sei qui, tu? - gli domandò il capitano, stupito ma brusco. - Bravo. Hai fatto il tuo dovere.

- Ho fatto il mio possibile, - rispose il tamburino.

- Sei stato ferito, - disse il capitano, cercando con gli occhi il suo uffiziale nei letti vicini.

- Che vuole! - disse il ragazzo, a cui dava coraggio a parlare la compiacenza altiera d’esser per la prima volta ferito, senza di che non avrebbe osato d’aprir bocca in faccia a quel capitano; - ho avuto un bel correre gobbo, m’han visto subito. Arrivavo venti minuti prima se non mi coglievano. Per fortuna che ho trovato subito