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parve che gli occhi del malato rivelassero un principio di coscienza. Alla voce carezzevole del ragazzo pareva che un’espressione vaga di gratitudine gli brillasse un momento nelle pupille, e una volta mosse un poco le labbra come se volesse dir qualche cosa. Dopo ogni breve assopimento, riaprendo gli occhi, sembrava che cercasse il suo piccolo infermiere. Il medico, ripassato due volte, notò un poco di miglioramento. Verso sera, avvicinandogli il bicchiere alle labbra, il ragazzo credette di veder guizzare sulle sue labbra gonfie un leggerissimo sorriso. E allora cominciò a riconfortarsi, a sperare. E con la speranza d’essere inteso, almeno confusamente, gli parlava, gli parlava a lungo, della mamma, delle sorelle piccole, del ritorno a casa, e lo esortava a farsi animo, con parole calde e amorose. E benché dubitasse sovente di non esser capito, pure parlava, perché gli pareva che, anche non comprendendo, il malato ascoltasse con un certo piacere la sua voce, quell’intonazione insolita di affetto e di tristezza. E in quella maniera passò il secondo giorno, e il terzo, e il quarto, in una vicenda di miglioramenti leggieri e di peggioramenti improvvisi; e il ragazzo era così tutto assorto nelle sue cure, che appena sbocconcellava due volte al giorno un po’ di pane e un po’ di formaggio, che gli portava la suora, e non vedeva quasi quel che seguiva intorno a lui, i malati moribondi, l’accorrere improvviso delle suore di notte, i pianti e gli atti di desolazione dei visitatori che uscivano senza speranza, tutte quelle scene dolorose e lugubri della vita d’un ospedale, che in qualunque altra occasione l’avrebbero sbalordito e atterrito. Le ore, i giorni passavano, ed egli era sempre là col suo Tata,