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Il medico lo guardò.
- È il figliuolo del malato - disse la suora; - è arrivato questa mattina dal suo paese.
Il medico gli posò una mano sulla spalla, poi si chinò sul malato, gli tastò il polso, gli toccò la fronte, e fece qualche domanda alla suora, la quale rispose: - nulla di nuovo. Rimase un po’ pensieroso, poi disse: - Continuate come prima.
Allora il ragazzo si fece coraggio e domandò con voce di pianto: - Che cos’ha mio padre?
- Fatti animo, figliuolo, - rispose il medico, rimettendogli una mano sulla spalla. - Ha una risipola facciale. È grave, ma c’è ancora speranza. Assistilo. La tua presenza gli può far del bene.
- Ma non mi riconosce! - esclamò il ragazzo in tuono desolato.
- Ti riconoscerà... domani, forse. Speriamo bene, fatti coraggio.
Il ragazzo avrebbe voluto domandar altro; ma non osò. Il medico passò oltre. E allora egli cominciò la sua vita d’infermiere. Non potendo far altro accomodava le coperte al malato, gli toccava ogni tanto la mano, gli cacciava i moscerini, si chinava su di lui ad ogni gemito, e quando la suora portava da bere, le levava di mano il bicchiere o il cucchiaio, e lo porgeva in sua vece. Il malato lo guardava qualche volta; ma non dava segno di riconoscerlo. Senonché il suo sguardo si arrestava sempre più a lungo sopra di lui, specialmente quando si metteva agli occhi il fazzoletto. E così passò il primo giorno. La notte il ragazzo dormì sopra due seggiole, in un angolo del camerone, e la mattina riprese il suo ufficio pietoso. Quel giorno