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feriti, adagiati su due file di letti e di materassi distesi sul pavimento; due medici e vari inservienti andavano e venivano, affannati; e s’udivan delle grida soffocate e dei gemiti.
Appena entrato, il capitano si fermò, e girò lo sguardo all’intorno, in cerca del suo ufficiale.
In quel punto si sentì chiamare da una voce fioca, vicinissima: - Signor capitano!
Si voltò: era il tamburino
Era disteso sopra un letto a cavalletti, - coperto fino al petto da una rozza tenda da finestra, a quadretti rossi e bianchi, - con le braccia fuori; pallido e smagrito, ma sempre coi suoi occhi scintillanti, come due gemme nere.
- Sei qui, tu? - gli domandò il capitano, stupito ma brusco. - Bravo. Hai fatto il tuo dovere.
- Ho fatto il mio possibile, - rispose il tamburino.
- Sei stato ferito, - disse il capitano, cercando con gli occhi il suo ufficiale nei letti vicini.
- Che vuole! - disse il ragazzo, a cui dava coraggio a parlare la compiacenza altiera d’esser per la prima volta ferito, senza di che non avrebbe osato d’aprir bocca in faccia a quel capitano; - ho avuto un bel correre gobbo, m’han visto subito. Arrivavo venti minuti prima se non mi coglievano. Per fortuna che ho trovato subito un capitano di Stato Maggiore da consegnargli il biglietto. Ma è stato un brutto discendere dopo quella carezza! Morivo dalla sete, temevo di non arrivare più, piangevo dalla rabbia a pensare che ad ogni minuto di ritardo se n’andava uno all’altro mondo, lassù. Basta, ho fatto quello