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NOVEMBRE.


IL MIO AMICO GARRONE.


4, venerdì.

Non furon che due giorni di vacanza e mi parve di star tanto tempo senza rivedere Garrone. Quanto più lo conosco, tanto più gli voglio bene, e così segue a tutti gli altri, fuorchè ai prepotenti, che con lui non se la dicono, perchè egli non lascia far prepotenze. Ogni volta che uno grande alza la mano su di uno piccolo, il piccolo grida: — Garrone! — e il grande non picchia più. Suo padre è macchinista della strada ferrata; egli cominciò tardi le scuole perchè fu malato due anni. È il più alto e il più forte della classe, alza un banco con una mano, mangia sempre, è buono. Qualunque cosa gli domandino, matita, gomma, carta, temperino, impresta o dà tutto; e non parla e non ride in iscuola: se ne sta sempre immobile nel banco troppo stretto per lui, con la schiena arrotondata e il testone dentro le spalle; e quando lo guardo, mi fa un sorriso con gli occhi socchiusi come per dirmi: — Ebbene, Enrico, siamo amici? — Ma fa ridere, grande e grosso com’è, che ha giacchetta, calzoni, maniche, tutto troppo stretto e troppo corto, un cappello che non gli sta in capo, il capo rapato, le scarpe grosse, e una cravatta sempre attorcigliata come una corda. Caro Garrone, basta guardarlo in viso una volta per prendergli affetto. Tutti i più pic-