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l’avevano fatta peggiorare fuor di modo. Da ultimo, le s’era manifestata una malattia gravissima: un’ernia intestinale strozzata. Da quindici giorni non s’alzava da letto. Era necessaria un’operazione chirurgica per salvarle la vita. E in quel momento appunto, mentre il suo Marco la invocava, stavano accanto al suo letto il padrone e la padrona di casa, a ragionarla con molta dolcezza perché si lasciasse operare, ed essa persisteva nel rifiuto, piangendo. Un bravo medico di Tucuman era già venuto la settimana prima, inutilmente. - No, cari signori - essa diceva, - non mette conto; non ho più forza di resistere; morirei sotto i ferri del chirurgo. È meglio che mi lascino morir così. Non ci tengo più alla vita oramai. Tutto è finito per me. È meglio che muoia prima di sapere cos’è accaduto alla mia famiglia. - E i padroni a dirle di no, che si facesse coraggio, che alle ultime lettere mandate a Genova direttamente avrebbe ricevuto risposta, che si lasciasse operare, che lo facesse per i suoi figliuoli. Ma quel pensiero dei suoi figliuoli non faceva che aggravare di maggior ansia lo scoraggiamento profondo che la prostrava da lungo tempo. A quelle parole scoppiava in un pianto. - Oh, i miei figliuoli! i miei figliuoli! - esclamava, giungendo le mani; - forse non ci sono più! È meglio che muoia anch’io. Li ringrazio, buoni signori, li ringrazio di cuore. Ma è meglio che muoia. Tanto non guarirei neanche con l’operazione, ne sono sicura. Grazie di tante cure, buoni signori. È inutile che dopo domani torni il medico. Voglio morire. È destino ch’io muoia qui. Ho deciso. - E quelli ancora a consolarla, a ripeterle: - No, non