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regolato come una marcia di soldati. Ogni mattina si mettevano in cammino alle cinque, si fermavano alle nove, ripartivano alle cinque della sera, tornavano a fermarsi alle dieci. I peones andavano a cavallo e stimolavano i buoi con lunghe canne. Il ragazzo accendeva il fuoco per l’arrosto, dava da mangiare alle bestie, ripuliva le lanterne, portava l’acqua da bere. Il paese gli passava davanti come una visione indistinta: vasti boschi di piccoli alberi bruni; villaggi di poche case sparse, con le facciate rosse e merlate; vastissimi spazi, forse antichi letti di grandi laghi salati, biancheggianti di sale fin dove arrivava la vista; e da ogni parte e sempre, pianura, solitudine, silenzio. Rarissimamente incontravano due o tre viaggiatori a cavallo, seguiti da un branco di cavalli sciolti, che passavano di galoppo, come un turbine. I giorni eran tutti eguali, come sul mare; uggiosi e interminabili. Ma il tempo era bello. Senonché i peones, come se il ragazzo fosse stato il loro servitore obbligato, diventavano di giorno in giorno più esigenti: alcuni lo trattavano brutalmente, con minacce; tutti si facevan servire senza riguardi; gli facevan portare carichi enormi di foraggi; lo mandavan a pigliar acqua a grandi distanze; ed egli, rotto dalla fatica, non poteva neanche dormire la notte, scosso continuamente dai sobbalzi violenti del carro e dallo scricchiolìo assordante delle ruote e delle sale di legno. E per giunta, essendosi levato il vento, una terra fina, rossiccia e grassa, che avvolgeva ogni cosa, penetrava nel carro, gli entrava sotto i panni, gli empiva gli occhi e la bocca, gli toglieva la vista e il respiro, continua, opprimente, insopportabile. Sfinito dalle fatiche