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fece scendere, l’un dopo l’altro, aiutati da altri pompieri di sotto. Passò prima la donna della ringhiera, poi una bimba, un’altra donna, un vecchio. Tutti eran salvi. Dopo il vecchio, scesero i pompieri rimasti dentro; ultimo a scendere fu il caporale, che era stato il primo ad accorrere. La folla li accolse tutti con uno scoppio d’applausi; ma quando comparve l’ultimo, l’avanguardia dei salvatori, quello che aveva affrontato innanzi agli altri l’abisso, quello che sarebbe morto, se uno avesse dovuto morire, la folla lo salutò come un trionfatore, gridando e stendendo le braccia con uno slancio affettuoso d’ammirazione e di gratitudine, e in pochi momenti il suo nome oscuro - Giuseppe Robbino - suonò su mille bocche... Hai capito? Quello è coraggio, il coraggio del cuore, che non ragiona, che non vacilla, che va diritto cieco fulmineo dove sente il grido di chi muore. Io ti condurrò un giorno agli esercizi dei pompieri, e ti farò vedere il caporale Robbino; perché saresti molto contento di conoscerlo, non è vero? Risposi di sì. - Eccolo qua, - disse mio padre. Io mi voltai di scatto. I due pompieri, terminata la visita, attraversavan la stanza per uscire. Mio padre m’accennò il più piccolo, che aveva i galloni, e mi disse: - Stringi la mano al caporale Robbino. Il caporale si fermò e mi porse la mano, sorridendo: io gliela strinsi; egli mi fece un saluto ed uscì. - E ricordatene bene, - disse mio padre, - perché delle migliaia di mani che stringerai nella vita, non ce ne saranno forse dieci che valgono la sua.