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cui apparteneva, e del popolo, tra cui avea un nome. Il governo lo avea disgustato, lo avea degradato forsi per sospetti troppa anticipati; ma non seppe osservarlo, ritrovarlo reo o perderlo; offendendolo, non seppe metterlo nella impossibilitá di far male. Luigi de Gams organizzò nello stesso tempo una insorgenza in Caserta. Queste insorgenze, unite a quelle di Castelforte e di Teano, ruppero ogni comunicazione tra Capua e Gaeta e tra il governo napolitano ed il resto dell’Italia.

La ritirata dei francesi dalla provincia di Bari fece insorgere di nuovo quella provincia di Lecce. In Puglia eravi ancora Ettore Carafa colla sua legione, ed, oltre la legione, avea un nome e molti seguaci; ma, sia imprudenza, sia, come taluni vogliono gelosia del governo, Carafa fu richiamato da una provincia dove poteva esser utile ed inviato a guernire la fortezza di Pescara. La ritirata di Carafa fu un vero male per quelle province e per la repubblica intera. A questo male si sarebbe in parte riparato, se riusciva a Federici di penetrare in Puglia ed a Belpulsi nel contado di Molise; ma le spedizioni di questi due, ritardate soverchio, non furono intraprese se non dopo la partenza delle truppe francesi, quando cioè era impossibile eseguirle.

Cosí sopra tutta la superficie del territorio napolitano rimanevano appena dei punti democratici. Ma questi punti contenevano degli eroi. Nel fondo della Campania era Venafro, che sola avea resistito per lungo tempo a Mammone1, comandante dell’insorgenza di Sora: con poco piú di forza, avrebbe potuto prendere la parte offensiva. I paesi della Lucania fecero prodigi di valore, (i) Mammone Gaetano, prima molinaio, indi generale in capo dell’insorgenza di Sora, è un mostro orribile, di cui difficilmente si ritrova l’eguale. In due mesi di comando, in poca estensione di paese, ha fatto fucilar trecentocinquanta infelici; oltre del doppio forse uccisi dai suoi satelliti. Non si parla de’ saccheggi, delle violenze, degl’incendi; non si parla delle carceri orribili nelle quali gittava gl’infelici che cadevano nelle sue mani, non de’ nuovi generi di morte dalla sua crudeltá inventati. Ha rinnovate le invenzioni di Procuste, di Mezenzio... Il suo desiderio di sangue umano era tale, che si beveva tutto quello che usciva dagl’infelici che faceva scannare. Chi scrive lo ha veduto egli stesso beversi il sangue suo dopo essersi salassato, e cercar con aviditá quello degli altri salassati che erano con lui. Pranzava avendo a tavola qualche testa ancora grondante di sangue; beveva in un cranio... A questi mostri, scriveva Ferdinando da Sicilia: «mio generale e mio amico».

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