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divisione ha cagionata l’eterna infelicitá di questa piú bella parte dell’universo, e che, continuando ancora la divisione, l’infelicitá diventava di giorno in giorno maggiore. Imperciocché vi è stato un tempo nel quale l’Italia, sebbene politicamente debolissima, pure conservò un’altissima superioritá sugli altri popoli per sola forza di buone lettere, di industria, di commercio: erano gl’italiani i soli maestri, i soli artefici, i soli institutori di tutta l’Europa. Oggi, per la conquista dell’America, per le nuove vie aperte coll’India, per l’industria accresciuta nel Settentrione, del commercio non ritiene che una picciolissima parte. L’industria manifatturiera è ridotta nell’Europa intera a tale che, per vincere, abbisognano indispensabilmente capitali immensi e macchine le quali facciano minorare il prezzo dell’opera, ma che suppongono anche esse capitali grandissimi; e queste cose non si possono ottenere ne’ piccioli Stati. La gran macchina che si vede in Liverpool; quella macchina che è anche oggi il capo d’opera dell’industria umana, oggetto di grandissima meraviglia nello stesso paese dell’Europa nel quale, per le tante opere simili, non ne dovrebbe destar nessuna; quella macchina è invenzione di un fiorentino. Ma il povero italiano trovò che il suo ingegno era superiore alle forze dello Stato nel quale era nato, e, simile a Colombo, fu costretto a farne un dono allo straniero. Che poteano mai sperare l’industria e le arti da que’ governi in miniatura che dividevano il territorio che oggi compone il Regno d’Italia? E noi aggiungeremo ancora che questa stessa infelice politica ha nociuto anche alle lettere, ad onta dell’immenso ingegno italiano; talché si può dire che, mentre l’individuo italiano supera o per certo eguaglia l’individuo di qualunque altra nazione, l’insieme rimane inferiore, perché mancavano i grandissimi incoraggiamenti, mancavano i grandissimi premi, il centro comune, l’estensione delle comunicazioni, la facilitá della circolazione, e quel senso di gloria, il qual vien dall’unanime applauso del maggior numero; senso che, piú di ogni altra cagione, produce i grandi effetti, perché per l’ordinario colui, il quale crede di’ potere, o presto o tardi può veracemente.