Pagina:Cuoco, Vincenzo – Platone in Italia, Vol. I, 1928 – BEIC 1793340.djvu/75


XIII - DISCORSO DI CLINIA 69

il suo cuore. Ordinerai allora le idee, che vuoi comunicargli, in modo che destino il suo interesse e che lo accrescano ad ogni momento, senza lasciarlo mai raffreddare. Dirigerai o vincerai le sue passioni: ed otterrai un tanto fine, se saprai calmarle, destarle, oontraporle l’una all’altra., insomma se le conoscerai.

A che dunque si riduce quest’arte retorica di cui tu mi parli? A conoscer gli uomini e le cose.

— Tu — diss’io, — tu dunque, o Clinia, pensi che il bisogno dell’eloquenza nasca dalla nostra corruzione? Sappi che questo istesso suol dire un discepolo di Platone e mio amicissimo, quell’Aristotele di Stagira, di cui ti ho piú volte parlato.

— Ed Aristotele — egli rispose — ha ragione. Se tutti gli uomini fossero savi e buoni, non vi sarebbe bisogno di eloquenza. Or, perché essi si annoiano del vero e non amano il giusto, i savi hanno bisogno dell’arte della parola, come di una parte principale della scienza di ordinare e reggere le cittá1.

Ma verrá un tempo, e quest’arte passerá dai savi agli oziosi, i quali concepiranno una eloquenza, che non avrá per suo fine né il persuadere né il commuovere, ma quello solamente, come essi diranno, di piacere: e, per ottenere tal fine, si fabbricheranno una rettorica artificiosa, che sopracaricheranno di precetti difficili ed inutili, onde poi possano gli oziosi conseguire il piacere che vi è nel superarli. Cosí l’uomo, divorato dalla noia dell’ozio, si crea un’occupazione arbitraria: ed or ti conta le correnti delle travi della stanza in cui giace; ora, mettendo una gamba sull’altra, la dimena non senza qualche misura; ora fischia in cadenza; or fa una cosa, or ne imita un’altra; e trae dal ritorno periodico de’ suoni e de’ movimenti e dalle superflue difficoltá superate un tenue sentimento di vita ed un piacere chimerico, che supplisca alla mancanza de’ piaceri reali. Ma. quando tu vedrai le cose e gli animi ridotti a tale stato, fuggi una cittá ed un secolo frivolo, in cui il popolo, perduta la sola medicina che poteva sperar da’ savi, trova altri piaceri oltre di quelli di pensare e di sentire. —

  1. ARISTOTELE, Retorica