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VII - DI CLEOBOLO 33

Sembrerá strano, ma pure è vero: gli uomini non si riconoscon simili alla forma del corpo e della mente, che la natuta ha data comune a tutti, e, per credersi fratelli, debbono incominciare dall’aver degl’iddii comuni. A misura che i costumi e la lingua e le leggi diventan simili, i vari popoli diventano piu umani. L’ateniese incomincia a veder nello spartano un greco; il tarantino nel crotonese un italiano: allora la saviezza compisce l’opera e dice a tutti: — Voi siete figli della stessa terra. —

Il primo passo, che la sapienza umana fa per giugnere a questo fine, è quello di persuadere ai popoli che colla sola guerra non si vive. I popoli, per tal modo, diventan piú umani, perché hanno minor interesse ad esser crudeli. Sorge tra loro un’altra guerra di commercio, nella quale, per vincere, è necessarie che gli uomini si conservino e si moltiplichino. Ma quello di cui io piú mi glorio, se mai gloria alcuna l’uomo da bene può trarre da ciò che ha tentato per l’utile della sua patria, è di aver persuasi i tarantini che commercio non vi è senza arti, e che tra le arti la prima è l’agricoltura.

Noi abbiamo la porpora, e tempo fa non avevamo lana. Eravamo costretti a vender quella a vilissimo prezzo, e comprar ad altissimo i panni tinti da altri. Ora s’incominciano a moltiplicar le pecore e si ha molta cura della lana, che è divenuta la prima tra tutte le altre1. Tu hai potuto ben osservare le terre intorno al Galeso ricoperte di pecore, le quali l’industria de’ nostri tien quasi vestite di una pelle, onde la loro lana né si guasti dal fango e dall’intemperie delle stagioni, né si perda fra gli sterpi e gli spini2. L’uomo è divenuto piú industrioso, e la natura ricompensa piú generosamente il suo lavoro. Si è migliorata la razza de’ nostri cavalli. Il nostro suolo, piano, adusto, è opportunissimo al nutrimento di questo generoso compagno dei perigli e della gloria dell’uomo3.

  1. PLINIO, VIII, 48; COLUMELLA.
  2. ORAZIO, Odi, II, 6.
  3. Vedi l’Appendice IV.