Pagina:Cuoco, Vincenzo – Platone in Italia, Vol. I, 1928 – BEIC 1793340.djvu/215

Vuoi tu dunque conoscere qual debba esser la favola in una cittá? Vedi qual è quella parte di popolo che va al teatro. Paragona l’Italia e la Grecia, e troverai nella differenza de’costumi e degli ordini de’ due popoli la ragione della differenza delle loro favole. Nell’oclocratica Atene la piú vile plebe siede non solo spettatrice, ma arbitra di tutti gli spettacoli teatrali; e perciò tu vedi ivi le favole essere stolte, tumultuose, senza disegno, senza verosimiglianza, senza moderazione, simili ai comizi del popolo, che le ascolta. L’ingegno di Aristofane le ha rese quanto piú si potean belle; ma, a traverso delle grazie, onde la di lui arte l’ha adornate, tu riconosci i difetti della natura. Chi paragona le favole di Aristofane a quelle che abbiamo in Italia, indovina che in Atene il popolaccio è piú colto, ma che in Italia vi è piú numerosa una classe di persone superiore al popolo, e che questa dá nei teatri la legge. In Italia questa classe di uomini migliori è rimasta superiore alla plebe. Noi abbiam due teatri, perché abbiamo due costumi e quasi due popoli diversi: abbiamo per la plebe la commedia atellana, la quale è rimasta inferiore alle vostre favole di Eupoli e di Cratino, perché è rimasta per uso della sola plebe; ed abbiamo la commedia di Epicarmo, superiore a quelle favole vostre, perché destinata ad uomini savi. Voi avete confusi, coi vostri ordini politici, tutte le classi; avete avvicinati gli ottimi alla plebe: onde n’ è avvenuto che quelli siensi un pocolino guastati e questa un pocolino migliorata nel vicendevole commercio di pensieri e di costumi; e perciò voi avete una favola che è superiore all’«atellana», nia inferiore alla «italiana». Ora ti dirò altra cosa, che tu crederai piú inverisimile, e che intanto è verissima. Queste stesse cagioni fanno estinguere interamente l’arte drammatica presso una nazione. Imperocché, per dilettare un popolo colla dipintura de’ costumi, è necessitá che questo popolo abbia un costume proprio. Io non chiamerò vero diletto quello che mi dá un poeta, sia tragico sia comico, il quale mi mostra sulle scene costumi e riti strani, non altrimenti che se mi mostrasse un orso o un elefante; ma a quello darò il nome di «poeta», che, colla dipintura di quegli affetti.