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— Noi li crediamo, al contrario, virtuosissimi. — Eppure essi non doveano avere tutte quelle cognizioni che oggi voi avete, se e vero che il gusto di filosofare non sia tra voi piú antico della etá di Socrate. E, quando anche avvenisse che esso fosse piú antico, io vi domanderò di nuovo: che pensate della virtú di Armodio e di Aristogitone che ristabilirono tra voi l’impero delle leggi, di quel Codro che seppe comprar colla sua morte la vittoria di Atene, di quel Teseo che la fondò? E, cosí via discorrendo, giungeremo sempre ad una etá, in cui troveremo uomini virtuosissimi e poca o nessuna scienza. E come potrebbe avvenire diversamente, senza dare una mentita agli iddíi? i quali, avendo stabilito la virtú necessaria alla felicitá di tutti gli uomini, non è credibile che la faccian dipendere da una scienza che è tanto difficile acquistare; né è credibile che voi, ateniesi e tarantini, sol perché siete piú colti, dobbiate esser perciò piú cari agli iddíi. — Ma quale strada, dunque, credi tu, uomo saggio, piú conducente alla virtú? — Io ve lo ripeto: non aspettate da me sublimi teorie. Vi parlerò di fatti, che una lunga vita e non oziosa mi han posto al caso di osservare. Io vi parlerò di fatti vostri, de’ quali, sebbene io non sia greco, pure la lunga amicizia coi greci mi hanno istruito. Ditemi dunque: quando tutto il popolo di Atene, radunato nel teatro, diede concordemente il nome di «giusto» al vostro Aristide, credete voi che tutti avessero la stessa idea della giustizia? — E come no? — E quando Temistocle si presentò all’assemblea per proporre un progetto che egli diceva utile alla patria, ma che non potea rivelare in pubblico; e tutta l’assemblea si contentò che lo confidasse al solo Aristide, e poi vi rinunciò subito che Aristide disse il progetto poter ben apparir utile, ma non esser però giusto? — Crediamo lo stesso. — Non è meraviglia: giovani dotati di tanto buon senso, quanto voi ne avete, non ne potrebbero disconvenire. Era dunque