e in guerra e in tribunale1 e in ogni dove s’ha a fare tutto ciò che dice la patria, o, al più, se ciò ch’ella domanda non ci par giusto, persuaderla con maniere dolci2; ma, far violenza, non è santa cosa, nè a farla al padre, nè alla madre, e tanto più alla patria?3.



  1. Anche in tribunale Socrate aveva fatto il suo dovere. «Quando voi - dice Socrate agli Ateniesi suoi giudici, nell’Apologia - i dieci capitani che non recuperarono i naufraghi e i morti della battaglia navale (delle Arginusse) voleste giudicare tutti insieme, contro legge, come, passando tempo, vi foste accorti voi medesimi, allora io solo dei Pritani mi fui opposto a voi acciocchè nulla fosse fatto contro le leggi; e votai contro. E già gli oratori lesti a interdirmi, menarmi in carcere; incorandoli, gridando voi: ma io pensai meglio mettermi in pericolo con la legge e con la giustizia, che con voi starmene deliberanti la ingiustizia, per paura di catene e di morte. E questo fu, reggendosi tuttavia la città a popolo» (cap. XX).
  2. Per tutta la vita Socrate aveva cercato di persuadere i suoi concittadini del vero concetto di virtù; gli rispondevano ora facendolo morire. Socrate era pronto a morire - come diceva l’epitafio di Simonide - «per obbedire alle sante leggi» della sua patria.
  3. Ecco il sentimento, famigliare, intimo, che Socrate ha della patria. Cara, vicina come padre e madre, ma più di essi augusta e sacra. E come ai genitori non si rendono i rimproveri, le percosse, le ingiustizie, ma s’accettano e si tace, perchè non abbiamo su di essi il diritto che essi hanno su di noi, così anche l’ingiusta morte comandata dalle leggi patrie va accettata senza proteste.
    Socrate è così poco colui che si stacca dallo Stato e gli si contrappone, che si sente più che mai «figlio» della sua città, legato ad essa d’un legame ch’egli non concepisce si sciolga se non con la morte.