noi1, guarda se piuttosto non ci convenga esaminare, dacchè così richiede la ragione, se noi operiamo giustamente pagando con danari e con ringraziamento coloro che mi traggon di qua; se operiamo giustamente quelli ed io, quelli che mi traggono e io che mi lascio trarre; ovvero se iniquamente; e caso ci paia che iniquamente, guarda se convenga, alla morte, o a che altro di peggio ci possa cogliere, restando qui con tranquillo animo, piuttosto non pensarci, che fare cosa ingiusta2.

Critone. Dire, dirai bene; ma, Socrate, bada a che fai3.

Socrate. Badiamoci insieme, o buono uomo: e se tu hai modo di ribatter le mie ragioni, ribattimele



  1. Noi, i savi, gl’intenditori di giustizia. - La contrapposizione è netta e precisa, tra savi e stolti; anzi, come giungeranno a dire gli stoici, tra savi e folli.
  2. È il programma di quel che resta ancòra da indagare: se - dato che il commettere ingiustizia è il solo vero male dell’anima - la fuga, che Critone propone a Socrate, sia cosa equa od iniqua, e quindi da attuare o da respingere.
  3. Così risponde, da che mondo è mondo, il volgo: «Bei ragionamenti, bei discorsi; ma ti rovini: pensaci». E non c’è modo di fargli intendere che se quei ragionamenti non sono soltanto belli, ma anche giusti, quel che ne consegue non può esser rovina. La gente non si rassegna a questa applicazione diretta, immediata, perentoria, della teoria, come suol dirsi, alla pratica: e cerca sempre di tener disgiunto quel che è vero in teoria da quel che è giusto in pratica; per crearsi il comodo diritto d’agire come meglio le piace, col pretesto, comodissimo, che la pratica è tutt’altro che la teoria.