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capitolo terzo 109

attirato rimproveri dall’episcopato, e da una parte della nobiltà. Simulando riparare i suoi torti, Enrico fece condurre alla Corte Isabella ed Alonzo, sotto pretesto di vegliare alla loro educazione; ma in fatto per tenerveli quali ostaggi.

Dall’isolamento e dalla povertà del monastero di Arevallo, trasportata improvvisamente sulla scena abbagliante in cui la regina sua cognata menava vita dissipata in feste, cacce, tornei, banchetti, e si sforzava nascondere sotto lo splendore del lusso la vergogna delle sue pratiche, Isabella non ne rimase accecata. In quell’aere corrotto, assediata dalle adulazioni e da perfidi consigli, attorniata da nemici che spiavano ogni parola, perfino un semplice sguardo per calunniarla alla cognata, la sua prudenza, la sua sottile penetrazione, la sua costante riservatezza, il suo amore dello studio, la sua muta deferenza pel Re ed anche per la Regina, sopratutto la sua fervorosa pietà, la rendettero vittoriosa di tutte le insidie che le furono tese.

Tuttavia ne l’esaurimento del tesoro pubblico, nè la miseria dei popoli arrestavano le stolte prodigalità della Corte: pareva ella voler soffocare il grido dell’universale miseria mercè il frastuono delle feste. Irritato il Re di essere soprannominato impotente, cercava lo scandalo e il pericolo; e per giustificare la sua virilità colla prodezza, tendeva talvolta imboscate ai Mori e sprecava stoltamente il coraggio. Logoro pei piaceri, e stracco delle voluttà eleganti del suo favorito marchese di Villena, discese co’ più ignobili compagni alle più laide dissolutezze; e il suo capriccio sollevò talvolta oscuri familiari alle prime cariche dello Stato. Il malcontento de’ Grandi produsse in breve una fazione: si formò una lega nello scopo di sostituire sul trono ad Enrico il suo giovane fratello, Alonzo. I congiurati si radunarono in gran numero ad Avila, mentre Enrico se ne fuggiva spaventato a Salamanca, traendo seco la Regina ed Isabella.

La buona ventura di Enrico volle che il capo della potente Casa d’Alba, conservando l’antica venerazione del domma della legittimità, movesse in suo aiuto con millecinquecento cavalli. Si può dire che in quella giornata la Casa d’Alba salvò il principio dell’eredità monarchica. Il suo esempio fu seguito da altri gran signori, i quali raccolsero intorno al Sovrano un eser-