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anche a lui. All’ultimo, piuttosto che essere man- dato alla catena, o alla morte con otto palle nel petto, non era meglio morir di fame sotto uno di quei cespugli, come una bestia ferita? Ma che di- sgrazia era stata la sua! A Novara, dopo la bat- taglia, il suo capitano lo aveva abbracciato, e gli aveva dettato in piemontese la relazione dei fatti della compagnia, nella giornata. Egli aveva scritto traducendo in italiano, parola per parola, delle frasi che fischiavano, tagliavano, suonavano come co- perchi di tombe lasciati cadere su morti eroi. «Com- battevano con gran cuore, cadevano, si avvolto- lavano nel fango, e morivano senza badarci». Così finiva la relazione. Al capitano il linguaggio italiano era parso men forte, meno soldatesco di quello parlato da lui; ma la relazione voleva esser fatta in lingua, e i superiori avrebbero capito lo stesso. Egli intanto, caporaletto da nulla, aveva avuto da quel valoroso e semplice uomo una forte stretta di mano. Ma il tenente, quel pelo rosso, quella faccia che neppur il vaiolo l’aveva voluta rodere tutta, quel bastardo di signore che gli si era sempre mostrato astioso chiamandolo volontario fiaccona, s'era ingelosito a morte. E pochi giorni di poi aveva saputo aggirarlo, minacciarlo, insultarlo con un articolo del regolamento di disciplina alla mano. Egli avrebbe avuto cuore di ucciderlo; ma gli era parso meglio un ceffone, e su quel grugno glie lo aveva dato. Poi si era mescolato nella confusione del campo; chi lo aveva visto si ricordasse di lui, che quanto a rivederlo avrebbe potuto averne voglia.