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ma poi non ci tornò più: gli era parso d’aver sempre avuto gente alle spalle o appiattata dietro le siepi per fargli del male. Poi, come l’inverno venne, si tappò addirittura in casa e si mise a leg- gere, leggere, leggere, quasi non volesse rimanere neppur un istante da solo col proprio pensiero. Curioso però, che leggeva di preferenza il Libro di Giobbe, come se il percosso dalla sventura fosse stato lui. Quando non ne poteva più, allora si metteva, per dir così, all'ombra di Lupinella, sotto la quale si veniva curvando un tantino di più ogni giorno, ed essa per compensarlo e farsi voler bene gli ammanniva dei desinari e delle cene che, quasi quasi, quand’uno finiva, l’altra incominciava. Le ore ch’essa stava fuori di casa erano per lui ore di paurosa inquietudine, lunghe, contate.
— Che cosa dicono di me? — le domandava sempre appena essa tornava.
— Bah! — rispondeva Lupinella — non san nep- pure se siam vivi.
— Se siam vivi, se siamo! Veramente questo siamo... — brontolava egli quasi offeso. E lei pronta:
— Che cosa dice, che cosa vuole?
— Oh nulla! — le rispondeva il dottore, ben lieto che non avesse capito.
Così a poco a poco quella donna gli fece di- menticar sè stesso e la gente, e sino il brutto mo- mento cui s'era trovato, diceva essa, per le sue ubbie: onde alla fine egli s'accomodò a non pensar più nè a Prospero nè ad altri. Badava a mangiar bene e a ber meglio, e anche accadeva che qualche