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236 | così parlò zarathustra - parte quarta |
— Dell’uomo superiore a noi, sebbene siamo noi re. A lui noi conduciamo quest’asino. Giacchè l’uomo supremo sulla terra deve essere anche il supremo signore.
Nessuna infelicità nei destini umani è maggiore di quella che si abbatte su gli uomini quando i potenti della terra non sono più i primi degli uomini. Allora tutto diventa falso e mostruoso.
E se poi sono gli ultimi, e più tosto bruti che uomini, la plebe acquista pregio e finalmente la virtù plebea giunge ad esclamare: «Ecco io sola sono la virtù!».
«Che ascolto!», rispose Zarathustra; «quanta saggezza in chi è re! Io sono sorpreso; e, invero, già mi sento tentato a far versi su questo argomento! — Quand’anche fossero rime poco gradite per certi orecchi. Ho da lungo tempo disappreso ogni riserbo per le orecchie lunghe. Ebbene! Orsù!».
(Ma qui accadde che anche l’asino trovò il modo di dir la sua — ed egli disse, scolpitamente, ma con evidente malizia, I-A).
Nel primo anno — cred’io — di grazia, un dì, |
2.
I re si compicquero molto di queste rime di Zarathustra; poi quello che stava a destra disse: O Zarathustra, fu ottimo pensiero questo di metterci in cammino per vederti.
Giacchè i tuoi nemici ci mostrarono la tua imagine dentro al loro specchio: e in quello tu apparivi con la maschera del demonio e atteggiato a un ghigno di scherno, per modo che noi provammo paura di te.
Ma a che giovò questo! Sempre i tuoi insegnamenti ci pungevano l’orecchio ed il cuore. Infine dicemmo: e che deve importare a noi del suo aspetto?