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il grido di soccorso 233


Cessa di guazzare in ciò, o tu, nube foriera di pioggia del mattino! Non me ne sto io forse già qui, bagnato dalla tua angoscia e fracido come un cane?

Ora mi scuoto e fuggo da te: non devi meravigliartene! Ti sembro scortese? Ma questa è la mia cortesia.

Ma per ritornare al tuo uomo superiore, ebbene! Io corro a ricercarlo in quelle foreste: di là mi giunse il suo grido. Forse qualche belva lo stringe da presso.

Egli si trova entro i confini del mio regno e nessuna disgrazia deve colpirlo.

E invero ci sono molte belve feroci intorno a me».

Ciò dicendo, Zarathustra si volse per andarsene. Allora l’indovino disse: «O Zarathustra, tu sei uno scaltro!

Io lo so già: tu cerchi di liberarti di me! E per ciò ami meglio recarti nelle foreste ad inseguire gli animali feroci.

Ma che ti giova? La sera mi riavrai ancora; io resterò seduto quassù nella tua stessa caverna, paziente e grave come un ceppo — e attenderò!».

«Sia pure come tu dici!», gridò Zarathustra nel partire: «ciò che è mio, nella mia caverna, tu puoi considerarlo come cosa tua, giacché sei mio ospite!

E se vi trovi ancora del miele, ebbene, leccalo pure con la tua lingua, o tu orso brontolone, e raddolcisci la tua anima! E sono certo che ce la spasseremo insieme — lieti che questo giorno abbia avuto termine! E tu dovresti accompagnare il mio canto in figura dell’orso che balla.

Tu non ci credi? Tu scuoti il capo? Ebbene! Orsù! Vecchio orso! Non sono forse anch’io un indovino?».

Così parlò Zarathustra.