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210 così parlò zarathustra — parte terza


Tutto si spezza, tutto si ricongiunge; eternamente s’edifica la stessa casa dell’esistenza. Tutto si separa e tutto si risaluta; sempre fedele a sè stesso è l’anello dell’esistenza.

Ad ogni attimo l’esistenza ricomincia; intorno ad ogni «qui» si gira la palla «là». Il centro è in ogni dove. Tortuoso è il sentiero dell’eternità!

— O buffoni e organetti! — rispose Zarathustra, sorridendo un’altra volta — voi sapete egregiamente ciò che dev’essere compiuto in sette giorni!

— E come quel mostro entrò nella mia strozza per soffocarmi! Ma io gli staccai coi denti la testa e la gettai lontano da me.

E voi, — voi avete già fatta intorno a ciò una canzone che corre le vie? Ma ora io giaccio qui, ancora stanco del mordere e del rigettare, ancor ammalato della mia propria redenzione.

E voi assistete come spettatori a tutto ciò? O miei animali, siete voi anche crudeli? Voi avete voluto assistere al mio grande dolore, come usano fare gli uomini?

Giacchè l’uomo è il più crudele degli animali.

Non mai egli si sente così lieto, come quando assiste a una tragedia, ai combattimenti dei tori, alle crocifissioni; e quando inventò l’inferno gli parve di sentire il paradiso in terra.

Quando il dolore strappa grida e lamenti all’uomo grande, il piccolo accorre ratto come il baleno e la lingua gli penzola fuor della bocca per la voluttà. Ma egli chiama ciò la sua «compassione».

Quanto è zelante l’uomo piccolo, segnatamente il poeta, nello accusar la vita con le parole! Ascoltatelo pure, ma non vi sfugga il piacere ch’egli prova nell’accusare!

Questi accusatori della vita, la vita li soggioca con un ammiccar d’occhio. «Tu mi ami?», chiede l’insolente: «attendi ancora un poco, ora non ho tempo per te».

L’uomo è contro sè stesso il più crudele degli animali; in ogni peccatore, in ogni «penitente», è visibile il piacere del lamentarsi e dell’accusare.

E io stesso — voglio forse con ciò accusare l’uomo? Ah, miei animali, questo soltanto ho imparato sinora: che all’uomo le