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il convalescente 209


— O Zarathustra, dissero, tu giaci così da sette giorni, con gli occhi pesanti.

Levati, esci dalla tua caverna: come un giardino, la terra ti attende. Il vento gioca con gli effluvi, che ricercano di te: e tutti i ruscelli vorrebbero seguirti.

Tutte le cose han desiderio di te, poi che per sette giorni rimanesti solo. Esci dalla tua caverna! Tutte le cose anelano di confortarti e guarirti.

Forse una nuova conoscenza t’è sopraggiunta, una nuova e grave cura? Tu eri simile a una pasta che fermenta; la tua anima si gonfiava e traboccava oltre gli orli.

— O miei animali, rispose Zarathustra, chiacchierate ancora e lasciate ch’io v’ascolti! Mi è dolce sentirvi parlare: quando parlate, il mondo m’appar subito come un giardino.

È bene che esistano le parole ed i suoni: non son forse le une e gli altri arcobaleni e ponti che congiungono ciò che da eterno tempo è diviso?

Ad ogni anima occorre un mondo nuovo; per ogni anima un’altr’anima è un retro-mondo.

Tra ciò che più s’assomiglia, la somiglianza inventa le più belle menzogne: giacché quanto più piccolo è l’abisso tanto più difficile è varcarlo.

Per me — come potrebbe esistere qualche cosa «al di fuori di me?». Nessuna cosa ci è estranea! Ma i suoni inducono in noi l’oblio; quanto è caro il dimenticare!

Non si son forse dati nomi e suoni alle cose perchè l’uomo si obliasse in esse? È una divina follia la parola: con essa l’uomo saltella oltre le cose.

Quanto è graziosa la favella: la menzogna dei suoni! Mercè i suoni il nostro amore danza sa variopinti arcobaleni.

O Zarathustra — dissero allora gli animali — a coloro che pensano come noi le cose danzano di per sè; tutto ciò che viene si porge la mano, ride e fugge — per ritornare.

Tutto dilegua, tutto ritorna eternamente gira la ruota della esistenza. Tutto muore, tutto risorge; eternamente scorre l’anno dell’esistenza.