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208 così parlò zarathustra — parte terza


Spezza i nodi, che inceppano i tuoi orecchi! Obbedisci! Giacchè io voglio udirti! Su, su! Così forte è qui il tuono che lo debbono intendere anche i sepolcri!

E scaccia da te il sonno, e ogni cosa àtona od oscura! Ascoltami anche con gli occhi: la mia voce è un rimedio anche per i ciechi nati.

E quando sarai desto, dovrai tale restare eternamente. Non è mio costume risvegliar dal sonno la gente, per imporle poi di continuar a dormire!

Tu non ti muovi; tu ti distendi e russi? Su, su! Non russare — tu devi parlare! Zarathustra ti chiama, l’empio!

Io, Zarathustra, l’assertore della vita, lo zelator del dolore, il patrocinatore dell’eterno ritorno — te io chiamo, il più profondo dei miei pensieri!

Salute a me! Tu vieni: — ti sento! Il mio abisso parla, l’ultima mia profondità è da me costretta di salire alla luce!

Salute a me! Vieni qui! Dammi la mano... ah, basta! ah, ah... schifo, schifo, schifo... guai a me!

2.

Pronunciate queste parole, Zarathustra cadde a terra come corpo morto, e così giacque gran tempo.

E quando riebbe i sensi, tutto pallido e tremante, ancora stette in quell’attitudine a lungo, e non volle mangiare nè bere. Ciò durò sette giorni; ma i suoi animali gli rimasero da presso dì e notte: solo, di quando in quando, l’aquila s’involava in cerca del cibo.

E tutto ciò che le veniva fatto di trovare, esso lo deponeva sul giaciglio di Zarathustra: sicchè egli fu come sepolto sotto le bacche gialle e rosse, e i grappoli, e le mele rosate, e le erbe odorose e le pigne. E ai suoi piedi giacevano due agnelli, che l’aquila a fatica aveva rapito ai pastori.

Finalmente, dopo sette giorni, Zarathustra si sollevò dal suo giaciglio; prese in mano una mela rosata, la odorò, e gioì della grata fragranza. Allora i suoi animali credettero venuto il tempo di parlargli.