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della felicità involontaria | 153 |
Ma il pastore morse, come gli aveva consigliato il mio grido: egli morse per bene! Lontano da sè egli rigettò la testa del serpente: — e sorse in piedi.
Non più un pastore, non più un uomo — ma un rinnovato, un illuminato, che rideva!
Non mai ancora sulla terra uomo rise al pari di lui!
O miei fratelli, io udii un riso che non era umano, — ed ora una sete mi divora, un desiderio che non ha tregua.
Provo il desiderio di quel riso; e questo desiderio mi divora: oh, come posso sopportare ancora la vita? E come potrei ora acconciarmi a morire?».
Così parlò Zarathustra.
Della felicità involontaria.
Col cuore pieno di tali amarezze Zarathustra passò il mare, ma quando fu discosto quattro giornate di viaggio dalle isole beate e da’ suoi amici egli sentì d’aver vinto tutto il suo dolore; — vittorioso con fermo piede egli stava un’altra volta sul suo fato. E allora alla sua coscienza esultante Zarathustra parlò così:
«Di nuovo sono e voglio esser solo, solo col puro cielo e il libero mare; di nuovo intorno a me è pomeriggio.
Nel pomeriggio trovai per la prima volta i miei amici, nel pomeriggio anche la seconda: — in quell’ora che la luce vien silenziosamente mancando.
Giacchè tutto ciò che della felicità ancora è in cammino tra cielo e terra si elegge per sua dimora un’anima serena. Per la felicità tutta la luce s’è fatta più silenziosa.
Oh pomeriggio della mia vita! Un dì anche la mia felicità discese a valle in cerca d’una dimora; e allora trovò quelle anime ospitali.
O pomeriggio della mia vita! Quanto non gettai via per ottenere una cosa sola: quel rigoglio vivente ne’ miei pensieri, quell’aurora della mia più sublime speranza!