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della superazione di sè stessi 109


Con uno specchio centuplice io ne raccolsi lo sguardo quando la sua bocca era chiusa: perché il suo occhio mi parlasse. E il suo occhio mi parlò.

Ma dovunque trovai viventi, sentii anche parlare d’obbedienza. Tutto ciò che vive obbedisce.

È in secondo luogo: si comanda a colui che non sa obbedire a sè stesso. Tale è il costume d’ogni cosa vivente.

Ma in terzo luogo, ecco quanto ho udito: che il comandare è più difficile dell’obbedire.

E non soltanto compresi che chi comanda porta la responsabilità di tutti quelli che obbediscono e che tale responsabilità facilmente può schiacciarlo; — ma ben anche un rischio mi apparve ogni comandare; chè sempre colui che comanda pone in pericolo sé stesso.

Non solo: ma ancor quando l’uomo comanda a sé stesso, ei deve sopportarne la pena. Egli dev’essere giudice e vindice e vittima di sé. stesso.

«Come può avvenir ciò?» chiesi a me stesso. Che cosa può indurre ad obbedire e a comandare, ad obbedire ancor comandando?

Udite ora la mia parola, o saggi tra i saggi! Esaminate se io sono giunto a penetrar nel cuore della vita, e sino nelle vive radici di questo cuore!

Dove trovai la vita, ivi trovai anche la volontà di dominare; anche nella mente del servo scorsi la volontà d’esser padrone.

Ciò che al più debole persuade d'esser soggetto al più forte è la sua volontà, la quale vuole ch’egli domini su quello ch’è ancor più debole di lui; questa soddisfazione gli è necessaria.

E come il piccolo si concede al grande, per poter godere e dominare a sua volta ciò ch’è più piccolo di lui; così anche il più grande si concede e per amore della dominazione sacrifica la stessa vita.

In ciò sta il sacrificio suo: ch’esso è rischio e pericolo — un giuocar di dadi per la morte.

E dove esistono il sacrificio e la servitù e gli sguardi amorosi, ivi è anche la volontà d’esser padrone. Per vie recondite il più debole s’insinua nella rocca e nel cuore del potente e gli toglie una parte della sua potenza.