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lettera da torino 29

che bisogna vederlo all’opera: come scompone, come separa in piccole unità, come anima coteste unità, come le fa risaltare, come le rende visibili. Ma in questo la potenza si esautora: il resto vai niente. Quanto è misera, impacciata e novizia la sua arte di «sviluppare», lo sforzo ch’ei compie per mescolare almeno ciò che non è sbocciato separatamente. La sua maniera di procedere rammenta quella dei fratelli de Goncourt, il cui stile somiglia per tanti altri riguardi a quello di Wagner: si è presi da una specie di compassione di fronte a una debilità siffatta. Che Wagner abbia nascosto sotto colore di principio la sua inattitudine a creare una forma organica, ch’egli affetti uno «stile drammatico» là ove non vediamo che una impotenza di stile, tutto ciò risponde bene all’audace consuetudine che Wagner ha serbata per tutta la sua vita: egli stabilisce un principio là dove manca una facoltà (ben diverso in questo — sia detto per incidenza — dal vecchio Kant che avea la consuetudine di un’altra arditezza; di attribuire una «facoltà all’uomo ovunque gli mancasse un principio...). Lo ripeto: Wagner non è degno di ammirazione e d’amore che nell’invenzione di quanto v’ha di più basso: la concezione dei dettagli, — s’han tutte le ragioni di proclamarlo, in questo, un maestro di prim’or-