IX. Irene Augusta, mia genitrice, fanciulletta a quei dì, non avendo ancora oltrepassato il terzo lustro, era prole di Andronico primogenito di Giovanni Cesare, illustre prosapia certamente, la cui genealogia annestavasi agli Andronici e Costantini cognominati Duca. La sua taglia fiorente ergevasi a mo’ di eccelso arbore con perfettissime proporzioni, ora dilatandosi ov’era mestieri, ed ora strignendosi con tanta squisita corrispondenza di tutte le membra da renderne così amabile l’aspetto e la favella, che non aveavi nè più soave spettacolo, nè fonte di maggior dolcezza, per sembiante e voce, a cui dirizzare gli sguardi e l’udito. E tale essendo tramandava il suo volto non per intiero sferico, alla foggia di assiria pulzella, nè di soverchio bislungo, come vergine scitica, ma un cotal pocolino prolungato oltre la circonferenza d’un perfetto circolo, tramandava, ripeto, tutto il chiaror della luna. Dalle sue gote poi, ov’ella volgevale, diffondevasi la vaghezza e l’aura d’un verdeggiante prato, e veniva a colpir gli occhi pur anche de’ lontani spettatori un colore, simile a vivace porpora, di fiorente rosaio, permanendo intrattanto la presenza di lei sorgente non meno di piacere che di timore, per modo che la sua venustà a cui s’avveniva attraevane gli sguardi, e l’occhio maestoso ed il grave contegno forzavanlo ad abbassare le ciglia, mettendolo così in forse a quale degli incitamenti si convenisse dare la preferenza, impotente non meno di rattenersi dal mirarla che di reggere agli effetti di quelle luci ver lui rivolte. Non so in vero se abbia giammai esistito la Pallade cotanto celebrata dai pittori e dai poeti, e ritenu-