Pagina:Commedie di Aristofane (Romagnoli) III.djvu/7

4 ARISTOFANE

zione del l’Acropoli, con la quale si conclude la prima parte, non è che il mezzo per raggiungere lo scopo finale; onde tutte le scene’che seguono sono necessarie e attese con curiosità. Notevole, innanzitutto, è il magistero con cui è introdotta l’azione. In tutte le commedie viste fino ad ora, gli antefatti erano esposti agli spettatori mediante, o un monologo, o, peggio, un discorso rivolto ad essi direttamente da qualche personaggio. Qui, invece, la protagonista, senza mai permettersi strappi all’illusione scenica, fa prima sapere, indirettamente, nel dialogo con Vincibella, dell’appuntamento da lei dato alle compagne, poi rivela, così alto alto, il suo disegno di salvare la patria, e infine, dopo aver tenuto in curiosità le amiche e gli spettatori con una serie di allusioni e di reticenze, spiattella di colpo il mezzo infallibile. Notevole è anche la divisione del coro in due parti, grazie alla quale il vecchio e pesante organismo acquista anch’esso vita ed agilità dal principio alla fine dell’azione. Si osservino anche le macchiette dei due mariti gonzi e del pròbulo divagatore e babbione. Sono quanto mai lontane dai tipi convenzionali, e prese dal vero, con una cifra caratteristica che fa pensare ai novellieri del nostro trecento. Qui fanno la prima comparsa: loro numerosi gemelli vedremo presto nelle Dome alla festa di Dèmetra, nelle Dome a Parlamento, e nel Pluto. Aggiungo che ho tradotto in dialetto romanesco le parti di Lampetta, dell’araldo e dell’ambasciatore spartano, che nel testo sono in lacone; e in italiano, invece, i cori finali, pur essi dialettali, degli Spartani. Il dialetto mi parve adatto, qui come negli A comesi, ad aggiungere vivacità al dialogo comico; ma non seppi piegarlo a rendere il concitato lirismo ispirato a gesta e credenze tanto remote. E spero che della incongruenza avrò facile venia dai pazienti lettori.