zione del l’Acropoli, con la quale si conclude la prima parte,
non è che il mezzo per raggiungere lo scopo finale; onde
tutte le scene’che seguono sono necessarie e attese con curiosità. Notevole, innanzitutto, è il magistero con cui è introdotta l’azione. In tutte le commedie viste fino ad ora, gli
antefatti erano esposti agli spettatori mediante, o un monologo, o, peggio, un discorso rivolto ad essi direttamente da
qualche personaggio. Qui, invece, la protagonista, senza mai
permettersi strappi all’illusione scenica, fa prima sapere, indirettamente, nel dialogo con Vincibella, dell’appuntamento
da lei dato alle compagne, poi rivela, così alto alto, il suo
disegno di salvare la patria, e infine, dopo aver tenuto in
curiosità le amiche e gli spettatori con una serie di allusioni
e di reticenze, spiattella di colpo il mezzo infallibile. Notevole
è anche la divisione del coro in due parti, grazie alla quale
il vecchio e pesante organismo acquista anch’esso vita ed agilità dal principio alla fine dell’azione.
Si osservino anche le macchiette dei due mariti gonzi e
del pròbulo divagatore e babbione. Sono quanto mai lontane
dai tipi convenzionali, e prese dal vero, con una cifra caratteristica che fa pensare ai novellieri del nostro trecento. Qui
fanno la prima comparsa: loro numerosi gemelli vedremo
presto nelle Dome alla festa di Dèmetra, nelle Dome a Parlamento, e nel Pluto.
Aggiungo che ho tradotto in dialetto romanesco le parti
di Lampetta, dell’araldo e dell’ambasciatore spartano, che nel
testo sono in lacone; e in italiano, invece, i cori finali, pur
essi dialettali, degli Spartani. Il dialetto mi parve adatto, qui
come negli A comesi, ad aggiungere vivacità al dialogo comico; ma non seppi piegarlo a rendere il concitato lirismo ispirato a gesta e credenze tanto remote. E spero che della incongruenza avrò facile venia dai pazienti lettori.