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n’esce Filocleone, il più bel tipo di fanatico cke abbia mai calcate le scene, al cui cospetto impallidisce persino l’indimenticabile antiquario goldoniano Anseimo Terrazzani. L’azione, che nella condotta è come un rivolto delle Nuvole — Schifacleone, su per giù, al posto di Lesina, Filocleone, di Tirchippide — è intelligibile senza commento. Solo bisogna badare che la scena del cane è a chiave. Altrimenti può sembrare una puerilità. Essa è una specie di apologia, o, almeno, difesa di Lachete. Lachete fu spedito dagli Ateniesi il 424, capitano della flotta, in Sicilia. Qui badò più al proprio interesse che a realizzare in qualsiasi modo gli ambiziosi sogni di dominio degli Ateniesi: onde fu richiamato e sostituito; ma non punito. Quando Aristofane scriveva i Calabroni (423-22), gli affari di Sicilia doveron tornare a galla; e Cleone avrà ripreso 1 accusa contro il comandante che aveva tirato l’acqua al suo mulino. Nella commedia, il cane Labete (dal tema lab, pigliare) è, naturalmente, Lachete. Il cane accusatore è Cleone. L uno e l’altro sono oriundi di Cidatene; e le accuse che il difensore di Labete scaglia contro la bestia pigra e rumorosa son quelle per l’appunto che Aristofane lancia di solito all’odiato demagogo. Che poi il nostro commediografo simpatizzasse con Lachete, si spiega senza tirare in ballo parzialità partigiane. Ai suoi occhi era già un merito essere accusato dal conciapelli. E poi, sebbene li canzonasse, Aristofane non odiava questi soldatacci, come Lachete e Lamaco, che fanfaroneggiavano forse, ma all’occasione sapevano morire in campo. E Lachete cadde infatti pochi anni dopo a Mantinea, non ignobilmente. La condotta scenica della prima parte è perfetta: non c è che ammirarla. La seconda merita una speciale considerazione.