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126 ARISTOFANE

bito, toglie a mano a mano ogni persona dal suo affetto, s’impadronisce d’ambe le chiavi del suo cuore. Un discepolo anticipato del Tiresia oraziano. — Ma una congiura in famiglia presto lo detronizza, ed egli torna alla sua miseria. Più grave si sente l’influsso della tradizione nel prologo. Nella prima parabasi della Pace i coreuti lodano Aristofane perché

i servi dal teatro rimosse
piantacarote, e maceri di busse, che, fiottando
sempre, uscian su la scena, sì che delle percosse
beffandoli un compagno: «Misero, che t’occorre? —
gli dicesse — Qualche istrice ti piombò su le coste
e a ferro e fuoco il dorso ti mise?» — Tai zavorre,
tali sconcezze ignobili tenne da sé discoste.

Ma a dispetto di simil protesta, appartengono proprio a questo genere i duetti che aprono i Cavalieri, i Calabroni, la Pace, e che, come ricordano assai precisamente quello biasimato da Aristofane, così rassomigliano, anzi son quasi identici l’uno all’altro, rivelando anche in ciò il loro carattere convenzionale. Non ragionamenti e neppur dialogo, ma uno stupido cicaleccio, interpunto di frigidi giuochi di parole, di burle scipite e di sconcezze che si ripetono come echi da commedia a commedia. Essi sono riproduzioni di un antico, forse del più antico duetto comico convenzionale, fra due goffi personaggi che si dànno la berta a vicenda. E su qualche teatrucolo popolare d’infimo ordine, si può anche oggi assistere, in paesotti del Napoletano, a farse imbastite da cima a fondo di dialoghi ugualmente scurrili ed ugualmente inconcludenti fra Pulcinella e qualche suo degno interlocutore. E il popolino ci si diverte un mondo.

Il carattere più elevato e poetico dei Cavalieri si riafferma