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670 | p u r g a t o r i o x x v i i i . | [v. 1-21] |
cose fatte da Dio nel mondo; cioè in terra1, u’ stette come omo insegnatore et institutore de la legge e dottrina evangelica e costruzione de la s. Chiesa e ricomperazione all’ultimo dell’umana generazione, liberò li santi Padri de la pregione del nimico e menòli in vita eterna, aprendo le porte del cielo ch’erano state tanto tempo serrate; la qual cosa si dimostra da questo canto inanti in questa seconda cantica; appresso contemplando e considerando le cose celestiali; cioè li effetti che procedeno da le seconde cagioni; cioè da’ cieli, li quali anno ad influere l’uno ine l’altro, e cagionare cioè quil di sopra in quil di sotto, e poi ne le cose terrene; et all’ultimo come Iddio, prima cagione, sta di sopra tutta questa sua componizione, et influe2 e muove elli, stante immobile, in queste seconde cagioni, e beatifica l’angelica natura e l’umana che per la grazia sua n’è fatta degna; e così si sallie de l’attività a la contemplazione; la qual cosa è la materia de la tersa cantica; e questa è la via d’andare co la mente e levarsi da queste cose terrene a Dio in questa vita per grazia; e poi di po’ questa vita la mente così esercitata fi’ levata e menata su per gloria. E per questo modo àe insegnato lo nostro autore ai suoi lettori con molte figurazione e sottili allegorie e moralità a guadagnare in questa vita l’eterna beatitudine, la cui opera è da essere appregiata e lodata più che nessuna opera che facesse mai alcuno altro poeta. E puòsi chiamare questa sua opera poema de la santa Scrittura, et ordinato repositorio di tutte le notabili cose che si trovano apo li autori sì, come può vedere chiaramente lo studioso di questo poema; per la qual cosa io credo che Iddio abbia fatto singulare grazia al prefato autore esercitato tutto lo tempo suo in sì fatto esercizio, e che l’abbia ricevuto ne la sua beatitudine, essendo impossibile che sì altamente parli omo di Dio, che non senta d’entro come produce di fuora, e che l’omo cusì senta non può essere sensa singulare grazia di Dio. La qual grazia devotamente prego Iddio che faccia anco a me, lo quale con grandissimo diletto m’affatico ne la sposizione di sì fatto poema, a la quale veramente serei stato insufficente se la grazia di Dio continuamente in me, benchè indegno, non avesse spirato.
C. XXVIII — v. 22-33. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, attraversando per lo paradiso, fu impedito lo suo andare da uno fiumicello lo quale trovò correre in verso l’occidente in questa foresta, per la quale elli andava. Et è qui da notare, sì come abbo detto più volte di sopra, benchè l’autore, secondo la lettera,