40E disiar vedeste senza frutto1
Tai, che sarebbe il lor disio quetato,
Ch’eternalmente è dato lor per lutto:
43Io dico d’Aristotile e di Plato,
E di molti altri; e qui chinò la fronte,
E più non disse e rimase turbato.
46Noi devenimmo intanto a piè del monte:
Quivi trovammo la roccia sì erta,
Che indarno vi sarien le gambe pronte.
49Tra Lerici e Turbìa la più diserta,
La più romita costa è una scala,2
Verso di quella, agevole et aperta.
52Or chi sa da qual man la costa cala,
Disse il Maestro mio, fermando il passo,
Sì che possa salir chi va senz’ala?
55E mentre ch’ei, tenendo il viso basso,
Esaminava del cammin la mente;
Et io mirava suso intorno al sasso,
58Da man sinistra m’apparì una gente3
D’anime, che moveano i piè ver noi,
E non parea: sì venivan lente.
61Leva, diss’io, Maestro, li occhi tuoi:4
Ecco di qua chi ne darà consillio,
Se tu da te medesmo aver nol puoi.
64Guardò allora, e con libero pillio5
Rispuose: Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
E tu ferma la speme, dolce fillio.
67Ancora era quel popul di lontano,
Io dico, di po’ i nostri mille passi,
Quanto un buon gittator traria con mano,6
- ↑ v. 40. sensa
- ↑ v. 50. C. A. La più ritta ruina è
- ↑ v. 58. C. A. n’apparve
- ↑ v. 61. C. A. dissi al Maestro,
- ↑ v. 64. C. A. Guardommi
- ↑ v. 69. Traria dall”infinito trare. E.