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delle assennate postille, e l’altro se ne porse esponitore al popolo fiorentino. Che se il secolo decimosesto ebbe a gloriarsi di Galileo, Raffaello e Michelangelo, noi non ci apporremo gran fatto se giudichiamo come non poco vi ebbero contribuito i sommi poeti di codesta età; l’Ariosto e il Tasso, i quali negli scritti loro tanta parte dei versi danteschi trasfusero, che a sè medesimi ed a lui ebbero accresciuta la rinomanza. Dal seme però gittato per questi bennati spiriti non si ricavò intero lo sperato frutto: perciocchè l’influenza spagnuola avendo accasciata la vigoria degl’intelletti, adulterò il concetto della nazionale letteratura, e così le ottime discipline eziandio forviarono. Ma potevano le menti italiche tenere lungamente questa mala via, la quale senza dubbio avrebbeci menato alla barbarie e traboccati nella più miserevole condizione? Il Graziani con le sue liriche ed il Varano colle visioni, rinvigoritisi alla scuola dantesca, mostrarono i primi quale sentiero si dovea prendere; ma le arcadiche sdolcinature, e le lettere virgiliane, dettate con la petulanza propria della setta, ne distolsero dalla onorata meta, finchè nuovi astri non comparvero nel ridente cielo d’Ausonia. Gasparo Gozzi, Giuseppe Parini, Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti ed Ugo Foscolo ne illuminarono il novello cammino, che eglino stessi gloriosamente percorsero, seco traendo quanti del bello e del grande fossero capaci. Quanta adunque la nostra gratitudine per questi magnanimi, i quali ci ebbono rilevati e sul glorioso calle rimessi! Fu loro mercè che, risorto il culto dell’Allighieri, in Italia e fuori se ne multiplicassero le edizioni, e dovunque si cercasse agevolarne alla gioventù l’apprendimento. E qui potrà taluno ridire: Se già a trecento, o in quel