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[v. 67-75] | c o m m e n t o | 45 |
Dante ricognoscendolo, e come dimanda Dante, perchè va a tal cammino, quive: Io viddi una di lor ec.; ne la terza, come Dante lo dimanda di sua condizione, e com’elli risponde, quive: Casella mio, per tornar ec.; ne la quarta, come Dante lo prega che li canti, e come Casella l’esaudisce, quive: Et io: Se nuova ec.; ne la quinta finge come Catone reprende la loro negligenzia, e com’elle riprese si parteno e vanno in verso il monte, quive: Noi sedevam tutti ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la sua esposizione.
C. II — v. 67-75. In questi tre ternari finge lo nostro autore che quelle anime, occortesi ch’elli era col corpo, tutte s’affissero a lui, dicendo così: l’anime; cioè dette inansi, che si fur di me; cioè Dante, accorte; cioè avvedute, Per lo spirar; cioè per lo fiatare, ch’io era ancora vivo: ogni corpo vivo spira e respira, attraendo l’aire senza la quale non si vive, Meravilliando; cioè prendendo meravillia di me, diventaro smorte: lo smortore precede 1 da paura, perchè ’l sangue corre al cuore per confortarlo che non vegna meno per la paura, e le cose meravilliose adduceno paura; però dice che meravilliandosi divenneno quelle anime smorte. E come; qui pone l’autore una similitudine che, come al messo che viene co l’ulivo ogniuno si li approssima, per saper novelle; così feceno quelle anime a Dante, e però dice: E come a messaggier che porta ulivo; come è usanza, quando significa cosa d’allegrezza come vittoria, pace et acquisto di terre, e simili cose; ma, come li autori pognano, li 2 ambasciatori soleano portare lo ramo dell’ulivo, quando andavano ad acquistare nuova amistà, Tragge la gente; che ’l vede venire, per udir novelle; ecco ’l fine, E di calcar: l’un l’altro, per più appressarsi e mellio udire, nessun si mostra schivo; cioè nessuno sè trattiene, Così al viso mio; cioè di me Dante, s’affiser quelle Anime fortunate; cioè felice, perchè erano nella grazia di Dio, tutte quante; non rimanendove 3 nessuna a drieto, Quasi obliando d’ire; cioè quasi dimenticando d’andare al fine loro; cioè a farsi belle; cioè a purgarsi da la colpa del peccato co la penitenzia, per andare poi a la gloria de’ beati. E qui si nota la loro negligenzia la quale procede da’ diletti mondani, per li quali molti indugiano la penitenzia. E però finge l’autore che siano di questa negligenzia puniti inanti che entrino in purgatorio nel luogo più basso, come questa è più grave negligenzia che sia cagionata da tutti peccati mortali, non pur da uno; e però finge che siano puniti di questa negligenzia ne la piaggia, che è luogo più basso che vi sia, stando quine tanto, quanto sono stati negligenti ne la vita.
C. II — v. 76-90. In questi cinque ternari lo nostro autore finge