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[v. 103-111] | c o m m e n t o | 511 |
retorico, chi ad uno fine e chi ad uno altro. E di quinde dice aver preso elli, e però dice: la qual; cioè Eneide, mamma; cioè puppulla1 da la quale io abbo succhiato, come lo fanciullo lo latte nutritivo de la sua vita, così lo modo de la mia poesi abbo cavato quinde, Fùmi; cioè a me Stazio, e fùmi nutrice; questo è espositivo di quil che è ditto, cioè la qual mamma fùmi, et è colore retorico che si chiama interpretazione2; et in quanto dice fùmi, e fùmi è colore che si chiama conduplicazione; cioè l’Eneide fùmi nutrice poetando: imperò che come la nutrice governa lo fanciullo in tutti li suoi bisogni; cusì quella, me Stazio in tutti li atti de la mia poesi. Senza essa; cioè sensa l’Eneide, non fermai peso di dramma: dramma è l’ottava parte d’una oncia; quasi dica: Sensa la poesi di Virgilio non fermai nulla ne la mia. E per esser vissuto di là; cioè nel mondo, quando Visse Virgilio, assentirei un Sole Più che non deggio, al mio uscir di bando; cioè per essermi trovato con Virgilio in vita, consentrei stare in purgatorio, e penare ad andare in paradiso uno corso solare più che non debbo: ecco che ben mostra grande affezione a Virgilio: un Sole si può intendere una revoluzione che ’l Sole fa per li segni, e questo serebbe uno anno. E benchè grande spazio sia al desiderio de la beatitudine, pur pare piccula cosa a noi mondani, misurandolo co lo eterno; e così mostrerebbe poca affezione; ma si può intendere uno ciclo3 solare, che si compie in anni xxviii; ma io credo che l’autore intendesse pur d’uno anno: imperò ch’è grande tempo uno anno a chi sta in pena, et aspetta vita eterna.
C. XXI — v. 103-111. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Virgilio li fece cenno che tacesse; ma non si potè attenere che non sorridesse, e però dice: Volsen Virgilio a me; cioè fenno volgere a me Dante, queste parole; le quali disse Stazio ditte di sopra, Con viso; cioè con atto nel volto, che tacendo; cioè che non dicendomi nulla, disse: Taci; cioè io intesi che elli volea che io tacessi. Ma non può tutto la virtù che vole; cioè la virtù volitiva non può ottenere cioe ch’ella vuole, e massimamente ne le nostre passioni: spesse volte l’omo piange che non vorrebbe, e così ride; e però dice l’autore: Chè riso e pianto; che sono due atti che procedono da passione, son tanto seguaci; cioè de le passioni, unde descendeno; cioè lo riso da l’allegressa, e lo pianto dal dolore; e però dice: A la passion da che; cioè da la quale, ciascun si spicca; cioè di quelli alti di sopra nominati, si spicca; cioè procede sì, come da sua cagione, Che men seguen voler; cioè4 che men fanno quel che la volontà vuole, nei più veraci; cioè nelli omini più veritieri che non si fanno5 infin-