22Che la luce divina è penetrante
Per l’universo, secondo ch’è degno,
Sì che nulla li può essere ostante.
25Questo siguro e gaudioso regno,
Frequente in gente antica et in novella,
Viso et amor avea tutto ad un segno.
28O Trina luce, che ’n unica stella1
Scintillando a lor vista sì li appaga,2
Guardi qua giuso a la nostra procella.
31 Se i Barbari, venendo di tal plaga,
Che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
Rotante col suo fillio und ella è vaga,
34Veggendo Roma e l’ardua sua opra
Stupefaciansi, quando Laterano3
A le cose mortali andò di sopra;
37Io, che al divino da l’umano,
A l’eterno dal tempo era venuto,
E di Firenze al popul iusto e sano,4
40Di che stupor dovea esser compiuto!
Certo, tra esso e ’l gaudio mi facea
Libito non udire, e starmi muto.
43E quasi peregrin, che si ricrea
Nel tempio del suo voto riguardando,
E spera già ridir com’elli stea,
46Su per la viva luce passeggiando,
Menava io li occhi per li gradi
Mo su, mo giù, e mo ricirculando.
- ↑ v. 28. C. A. che unica
- ↑ v. 29. Appaga. In sul nascere del nostro idioma fu terminata più ragionevolmente in a la seconda persona singolare del presente indicativo, siccome in latino. E.
- ↑ v. 35. C. A. Stupefaceansi,
- ↑ v. 39. C. A. E di Fiorenza popol giusto