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C. XXX — v. 46-54. In questi tre ternari lo nostro autore lìnee come la grazia venne subitamente in lui, poi che fu sallito nel cielo empireo, dicendo così: Come; ecco che arreca una similitudine, subito lampo; cioè circunfulge intorno a l’omo, quando viene, che; cioè lo quale lampo: che cosa sia lampo è stato detto di sopra, discetti; cioè divida, Li spiriti visivi; cioè li radi visuali, che escono da l’occhio, li quali divisi non vedono, et uniti vedono, sì; cioè per sì fatto modo, che priva l’occhio; cioè umano, Da l’atto dei più forti obietti; cioè de le cose poste inanzi ad essere vedute, che avanzano la virtù visiva; e però si diceno obietti più forti: imperò che, debilitata la virtù visiva, non può esercitare l’atto del vedere in quelle cose che prima; se non fusse divisa, arebbe potuto vedere. Et adatta la similitudine, dicendo: Così mi circunfulse; cioè risplendè intorno a me Dante, luce viva; cioè luce della grazia d’Iddio illuminante, E lassòmi; cioè lasciò me Dante, fasciato di tal velo; cioè li occhi miei mentali, cioè la ragione e lo intelletto, secondo l’allegoria; e, secondo la lettera, s’intendrebbe delli occhi corporali, cioè di sì fatto coprimento, Del suo splendor; cioè d’essa grazia: imperò che ogni altra cosa levò della ragione e dello intelletto suo, che nulla m’appariva; cioè che nulla altra cosa vedeva, se non esso splendore, come non vede l’omo se non lo splendore del lampo, quando viene. Sempre l’Amor; ecco finge l’autore che Beatrice dicesse queste parole, cioè: Sempre l’amore d’Iddio, che queta; cioè contenta, questo Cielo; cioè 1 la corte di paradiso, che è lo cielo empireo, Accollie in sè; cioè in verso di sè, cioè in verso Iddio, così fatta salute; cioè che fa ogni altra cosa, che più è piaciuta, spiacere e non apparere nell’effetto, nè nella voluntà di colui, che è circonfulso di tale grazia, Per far disposto a sua fiamma il candelo; cioè per fare disposta l’anima a ricevere tale grazia, che arda di lui e non d’altra cosa. E questo fu quello che Beatrice disse, secondo che l’autore finge ch’elli udisse.
C. XXX — v. 55-69. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che, udite le parole di Beatrice, elli s’accorse la grazia d’Iddio essere venuta in lui per sì fatto modo, ch’elli sentì sè atto a ragguardare ogni luce, dicendo: Non fur più tosto dentro a me; cioè a me Dante, venute Queste parole brevi; cioè che dette sono di sopra, ch’io; cioè che io Dante, compresi Me sormontar; cioè in su montare, di sopra mia virtute; cioè più che non poteva la mia virtù umana, perchè m’era sopravenuta la grazia divina. E di novella vista mi raccesi; cioè di nuova virtù visiva si raccese la mia mente, Tale; cioè sì fatta, che nulla luce è tanto mera; cioè tanto pura:
- ↑ C. M. cioè lo quale amore contenta l’amore di paradiso,