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[v. 121-138] | c o m m e n t o | 725 |
variazione delle sue parti, cioè quando lo detto cielo àe volto tanti gradi è una ora di tempo passata, e 24 ore sono misura del di’ naturale; e li 7 di’, della settimana; e le 4 settimane con alcuno di’, del mese; e li 12 mesi, dell’anno, e così è colto che la Luna fa lo suo moto circulare in 28 di’ et ore, e lo Sole in uno anno, e così delli altri, Siccome diece; cioè questo numero diece è misurato, s’intende, da mezzo e da quinto; ecco diece quinti fanno due cinque, e due cinque fanno uno diece, sicchè la misura di diece è lo suo mezzo, e la misura del suo mezzo è lo quinto. E l’autore parlò così, per fare la sua rima che così poteva dire che uno da niuno altro numero è misurato; ma tutti li altri numeri sono misurati da lui, e così possiamo dire che lo movimento dei pianeti si fa in tante revoluzioni de la nona spera; ma non si può dire che la nona spera faccia una revoluzione in tante revoluzioni di Luna, nè d’altro pianeto. E come ’l tempo: tempo è misura del moto delle cose mutabili, secondo lo Filosofo, tegna in cotal testo; come è lo moto della nona spera, Le sue radici; cioè lo suo principio et incominciamento di corso, e nelli altri; cioè movimenti, cioè degli altri corpi celesti, le fronde; cioè li numeri composti: imperò che dal moto della nona si piglia l’unità dell’ore, e l’unità del di’. Bene è vero che l’ora si divide in punti, e li punti in momenti, e li momenti in atomi 1: tutte queste parti si pigliano da quel moto principalemente, e li altri movimenti degli altri corpi si pigliano dagli anni, e li anni da mesi, e li mesi dalle settimane, e le settimane da’ di’, e li di’ dall’ore, e così la radice del tempo con che si misura lo moto de corpi celesti è nel primo mobile, e la sua estensione è poi negli altri, come fronde produtte da quella radice, Omai; cioè oggimai, a te; cioè Dante, può esser manifesto; per le parole che io t’ò detto, e per la dichiaragione che io Beatrice t’òne fatto. Seguita.
C. XXVII — v. 121-138. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Beatrice, continuando lo suo parlare, riprende 2 la concupiscenzia de’beni mondani, che è radicata ne le menti umane, benchè in esse naturalmente sia l’appetito del sommo benedicendo così: O cupidigia; ecco che qui usa esclamazione, o vero apostrofa, esclamando contra la concupiscenzia umana. E perch’ella si fa sempre per interpellazione d’uomo o di femina, o d’animale, o vero da alcuno uomo, overo da alcuna altra cosa, non avendo a cui dirizzi lo sermone, lo dirizza in verso la concupiscenzia del mondo, dicendo: O cupidigia; cioè o concupiscenzia, e non s’intende pure di carnalità; ma d’ogni soperchio uso delle cose mondane, che i mor-