19Qual savesse qual’era la pastura
Del viso mio nell’aspetto beato,
Quand io mi trasmutai dall’altra cura.1
22Cognoscerebbe quanto m’era a grato
Obedire a la mia celeste scorta,
Contrapesando l’un coll’altro lato.
25Dentro al cristallo, che ’l vocabul porta,
Cerchiando ’l mondo, del suo caro duce,2
Sotto cui giacque ogni malizia morta,
28Di color d’oro, in che raggio traluce,
Vidd’io uno scaleo eretto in suso
Tanto, che nol seguiva la mia luce.
31Viddi anco per li gradi scender giuso
Tanti splendor, ch’io pensai ch’ogni lume.
Che par nel Ciel, quinde fusse diffuso.
34E come, per lo natural costume
Le pole insieme al cominciar del giorno
Si muoveno a scaldar le fredde piume;
37Poi altre vanno via senza ritorno,
Altre rivolgon sè unde son mosse,
Et altre roteando fan soggiorno;
40Tal modo parve a me che quivi fosse
In quello sfavillar, che ’nsieme venne.
Sì come in certo grado si percosse.
43E quel, che presso più ci si ritenne,
Si fe sì chiaro, ch’io dicea pensando:
Vegg’io ben l’amor, che tu m’accenne.3
- ↑ v. 21. C. A. ad altra
- ↑ v. 26. C. A. chiaro duce,
- ↑ v. 45. Vegg’io. Il Tasso fine conoscitore delle proprietà poetiche, in una sua prosa osserva come l’io posposto al verbo aggiunga maggior forza all’ espressione. E.