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c a n t o xx. | 561 |
133E voi, mortali, tenetevi stretti
Ad iudicar: chè noi, che Dio vedemo,
Non cognosciamo ancor tutti li eletti:
136Et ène dolce così fatto scemo!1 2
Perchè ’l ben nostro in questo ben s’affina.
Che quel, che vuole Iddio, e noi volemo.3
139Così da quella imagine divina,
Per farmi chiara la mia corta vista,
Data mi fu soave medicina.
142E come a buon cantor buon citarista
Fa seguitar lo guizzo de la corda,
In che più di piacer lo canto acquista;
145Sì mentre che parlò, sì mi ricorda,
Ch’io viddi le due luci benedette,
Pur come batter d’occhi si concorda,4
148Colle parole muover le fiammette.
- ↑ v. 136. Ène vale ne è, e quindi si accenta a differenza di ene per semplice
è. E. - ↑ v. 136. C. A. Ed enne
- ↑ v. 138. Volemo, cadenza naturale da volere. E.
- ↑ v. 147. C. A. d’occhio che s’accorda,
c o m m e n t o
Quando colui ec. Questo è il canto xx della terzia cantica, nel quale lo nostro autore finge come la dotta aquila ricominciò a parlare e manifestò a lui alquanti di quelli beati spiriti, che la detta aquila formavano. E dividesi questo canto in due parti principali, imperò che prima l’autore finge come la detta aquila, ritornata a parlare, li dimostrò cose maravigliose, come appare nel testo; nella seconda parte finge come la detta aquila, accorta del suo dubbio, li dichiarò lo dubbio ch’elli avea, et incominciasi quine: Et avvegna ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide in parti sei: imperò che prima l’autore arreca una similitudine, a dimostrare come li parve fatta la detta aquila quando ella ristette di parlare inanti che ricominciasse; nella seconda parte finge come, inanti che la detta aquila parlasse, elli s’accorse che dovea parlare per alcuno